Vite e vino
La viticultura romana fù agli inizi molto modesta, esplose successivamente, tanto che Marco Porcio Catone (234-149 a.C.) mise la vigna come la prima delle culture italiche.
Orazio rivolgendosi all’amico Varo, raccomanda quanto fosse importante la coltivazione di questa pianta.
«Nullam, Vare, sacra vite prius severis arborem» (Non piantare, o Varo, alcun albero prima della vite sacra).
Plinio il Vecchio (23-97 d.C.) nella “Naturalis Historia” scrive che almeno due terzi della produzione totale proveniva dall’Impero ed elenca 91 vitigni diversi con 195 specie di vini; 50 li definisce generosi, 38 oltremarini, 18 dolci, 64 contraffatti e 12 prodigiosi.
Sempre in Plinio si legge che l’Italia, per la coltivazione della vite, aveva una tale supremazia da avere superato, con questa unica risorsa, le ricchezze di ogni altro paese.
I vini che venivano prodotti e che si bevevano erano densi, amari, eccessivamente alcolici e fortemente invecchiati. A seconda della qualità il vino si poteva diluire fino a tre parti di acqua. Il vino puro (il merum) era riservato agli dei in occasione delle cerimonie religiose.
I Romani usavano tagliare vini diversi: un dolce vino greco, ad esempio, veniva miscelato con il Falerno per mitigarne l’asprezza.
I Romani più raffinati usavano aggiungere al vino sostanze di vario tipo; l’aggiunta più comune era quella di miele per addolcire e aumentarne il valore zuccherino, ottenendo il prelibato vinum mulsum, bevanda servita generalmente all’inizio di un convivio nei sontuosi banchetti delle grandi famiglie patrizie.
Come i Greci avevano portato la vite nell’area mediterranea, così i Romani con l’allargamento dell’impero la trasmisero nel resto dell’Europa.